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Il kendō non è un’arte marziale

Il termine “arte marziale” nasce un secolo fa e divenne popolare negli anni ’70, utilizzato per definire le arti da combattimento dell’estremo oriente, con un riferimento particolare al loro impiego come “tecniche di autodifesa”. Il judo e il karate sono senza dubbio le due discipline che hanno sempre goduto di maggiore popolarità sotto questa definizione-ombrello, ma col passare dei decenni ne sono approdate numerosissime, di ogni tipo, che comunque hanno sempre sofferto della definizione di “arte marziale” in quanto provenienti da qualche paese esotico. Complice di questo calderone è l’impiego del termine “arte”, che in origine nelle lingue occidentali voleva semplicemente dire “capacità di fare qualche cosa in base a ciò che si conosce” e che poi ha assunto un’accezione più nobilitata che coinvolge in maniera preponderante la creatività, così che oggi non si parla di arte se fai il falegname o il fabbro, ma se fai il fotografo o il pittore, sì. “Arte” è quindi quello che in giapponese potremmo riferire al suffisso -jutsu (術), “tecnica”, che troviamo in discipline quali jujutsu (e non jujitsu, per favore) e kenjutsu. L’impiego di tale suffisso sta a significare che in queste discipline viene ricercato il risultato più efficace nella tecnica, che dovrà essere impiegata in un combattimento reale. Così come il falegname è interessato a produrre un mobile solido, il praticante di bu-jutsu guarda al risultato della tecnica. Oggi vediamo il prolificare di discipline di questo tipo, che si esprimono al meglio nelle gabbie di MMA, dove vince chi sta in piedi fino alla fine.

Mi sembra superfluo evidenziare quanto distante un praticante di kendō si senta dall’MMA o dal krav-maga, dal momento che il suo obiettivo non è quello di difendersi con la spada o di fare duelli all’ultimo sangue. Quello che fa la differenza è quel -dō (道) posto alla fine. Non più “arte” quindi, ma “via”, nel senso esperienziale del termine, a significare che la pratica della disciplina di budō non è finalizzata a nulla se non alla pratica stessa e alle ripercussioni che tale percorso ha sulla persona che la pratica. Le discipline di budō moderne hanno quindi abbandonato l’utilità per addentrarsi in qualcosa di completamente diverso, nella ricerca del confronto con sé stessi e non con un’avversario. Il jujutsu è diventato judō, il kenjutsu kendō, il kyūjutsu kyūdō, lo iaijutsu iaidō. Nel mondo occidentale questa cosa è stata recepita solo in parte e c’è chi è convinto che il judō nasca per difendersi, così come c’è chi è convinto che il kenjutsu sia una disciplina zen. È necessario capire quanto siano diversi il mondo delle “tecniche di combattimento” e quello delle “discipline del budō”. E se oggi qualcuno storce il naso per l’utilizzo delle parole “martial arts” quando si chiudono due ragazzi in una gabbia a prendersi a ginocchiate in faccia, va forse notato che quello invece è il termine più adatto, mentre andrebbe smesso di usarlo per il judō, il kendō, l’aikidō e per tutte quelle discipline finalizzate in primo luogo, come ben recita il “kendō no rinen”, a “disciplinare il carattere umano”. Quest’ultima parola forse può suggerire un cambio lessicale: non più “arte marziale” ma “disciplina marziale”.

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