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L'arbitraggio dello iaido e la marmellata di fragole.

Durante uno dei primi seminari arbitrali di iaidō cui ho partecipato, Jock Hopson sosteneva che l’arbitro che conta gli errori è un cattivo arbitro, quando invece bisognerebbe giudicare le prestazioni dei concorrenti nel loro complesso. E’ una cosa che mi ha sempre dato da rifletere, ma che non ho mai capito a fondo. Ultimamente ho però fatto qualche ricerca sui processi decisionali e allora qualche spiraglio mi si è finalmente aperto.


Verso la fine degli anni ‘80 uno psicologo dell’Università della Virginia, Timothy Wilson, decise di fare un esperimento sulle preferenze dei suoi allievi in fatto di marmellata di fragole. Come si aspettava, i risultati del blind test furono in linea con una precedente ricerca di mercato e le marmellate giudicate migliori dai ragazzi erano le stesse che la ricerca indicava come preferite dai consumatori americani. Successivamente però Wilson ripeté il test con un altro gruppo di studenti, ma questa volta chiese loro di motivare le loro preferenze, compilando un questionario mentre eseguivano gli assaggi. I risultati furono decisamente differenti e addirittura la marmellata che era risultata peggiore dagli studi di mercato era adesso la preferita di questo gruppo. Cos’era successo? Wilson sostiene che “pensare troppo” alla marmellata di fragole ci faccia concentrare su tutta una serie di variabili che in realtà non contano niente, tipo la consistenza, la spalmabilità o il colore. Quando diamo solo ascolto alla ragione invece di ascoltare le nostre preferenze istintive - la marmellata migliore è quella associata alle sensazioni più positive - i nostri cervelli razionali cercano dei motivi per preferire una cosa ad un’altra e perdono la capacità di sapere cosa preferiamo davvero. E alla fine scegliamo la marmellata di fragole sbagliata.


Nello iaidō ci sono elementi facili da individuare razionalmente (l’altezza della punta, la direzione dei piedi,...) ed altri che non vengono immediatamente percepiti (la tempistica del taglio, la distanza dell’avversario, l’efficacia della tecnica,...): la ragione si limiterà a considerare le prime giudicando meno rilevanti le seconde, che invece hanno maggiore rilievo specie nei gradi più elevati, solo perché sono più difficili da decifrare.

Antoine Bechara, un neuroscienziato della USC, dimostrò che quando il cervello deve effettuare una scelta si innesca una sorta di battaglia interna a livello emotivo - e non a livello logico - in cui ogni elemento scatena una particolare serie di emozioni e di associazioni che lottano per prevalere. Quando osserviamo un praticante di iaidō che esegue un kata non dobbiamo quindi svolgere un’analisi logica per ogni singolo movimento che esegue. Invece, è meglio delegare gran parte di questo calcolo al nostro cervello emotivo e lasciare che siano le rispettive quantità di piacere o dolore che riceviamo a guidarci nella scelta. Quando Wilson chiese ai soggetti di razionalizzare le proprie preferenze sulle marmellate, questi presero delle decisioni sbagliate perché invece di ascoltare le proprie sensazioni cercarono deliberatamente di decifrare il loro piacere. Se un arbitro ha sufficiente esperienza non dovrebbe riflettere troppo sulla scelta, ma lasciarsi trasportare dalle sensazioni e alla fine sarà il suo cervello emozionale, che è il vero supercomputer della mente, a scegliere da solo chi votare. Questo non significa certo che gli potrà bastare un’occhiata per sapere chi vincerà uno shiai - anche l’inconscio bisogno di di tempo e dati per elaborare le informazioni - però suggerisce che esiste modo migliore di prendere le decisioni difficili. Meglio ascoltare le nostre sensazioni: ne sanno più di noi.


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